I calabresi doc, intendendo quelli che hanno ottenuto gli obiettivi sociali e culturali, passando forse anche attraverso più avanzati, sentono ancora il richiamo della terra o dei loro predecessori e sentono in modo particolare quella atavica cultura che li lega alle tradizioni e alle consuetudini. In questo retaggio culturale ritroviamo il maiale e la produzione di derivati che sembra siano in grado di riscoprire quel gusto atavico delle papille gustative presenti nel codice genetico di ciascuno di noi. Questa cultura suona come una campana a festa ed i suoi rintocchi hanno echi lontani, tanto lontani che nella maggior parte dei calabresi, nella stagione invernale e precisamente nel cuore dell’inverno o meglio nel periodo compreso tra la fine di dicembre e la metà del mese di febbraio, senti questo ritorno al ritorno, come le rondini a primavera, nel luogo della nidificazione per ritrovare la propria essenza. In questo contesto rientra un pieno titolo la ‘nduja, quasi un baluardo della calabresità gustativa che, come dicevo prima, da circa trenta anni ha raggiunto dei livelli di competizione con gli altri prodotti di nicchia della nostra penisola. Per fare questo si è avuta la necessità di modificare quegli standard esclusi- attivamente familiari o artigianali, che pur non determinando alcun viraggio sulle peculiarità organolettiche e gustative, hanno portato il prodotto ad un livello industriale che non richiede di attenersi a quelle che sono le norme igieniche e sanitarie invocate per avere una produzione di qualità e ugualmente sicura.
Dal libro Pugliese A., “‘Nduja, Antropologia Storia Tecnologia di un salume calabrese”, 2008.